Martin Mystére n. 337
"Il giocatore di scacchi" Sergio Bonelli Editore
Febbraio 2015
Storia di Alfredo Castelli ed Enrico Lotti. Arte di Rodolfo Torti.
"Il giocatore di scacchi" Sergio Bonelli Editore
Febbraio 2015
Storia di Alfredo Castelli ed Enrico Lotti. Arte di Rodolfo Torti.
La nuova fatica di Alfredo Castelli è realizzata secondo l’ormai rodato metodo del “BAU” (business as usual) che lo stesso Castelli ha esplicitato nella consueta (e rassicurante) anteprima annuale delle proposte editoriali del Martin Mystère di quest’anno.
L’apertura propone un inizio piacevolmente classico e rilassante, in cui un erudito Martin Mystère indulge nel nozionismo relativo alla storia degli “automi” che giocano a scacchi. La sequenza introduttiva si conclude in modo un po’ monco, per la mancanza quasi totale di collegamenti con gli sviluppi più recenti sull’argomento (e dato il vero tema della storia, questi sarebbero stati opportunamente pertinenti), ma la narrazione rilancia subito, mettendo in tavola la carta dell’intreccio storico con vicende “segrete” e alternative.
Purtroppo, Castelli sembra perdere rapidamente interesse nella vicenda relativa ai personaggi storici più famosi che il “Gabinetto Nero” austriaco avrebbe voluto manipolare, e sposta quindi la narrazione sul versante investigativo contemporaneo, dedicando grande spazio al misterioso legame tra alcuni fatti di sangue più o meno recenti e la storia della famiglia di “nani” che, sin dai tempi della creazione dell’automa scacchista noto come il “Turco”, si prende cura di un congegno letteralmente mysterioso che costituiva la vera essenza dell’automa. E’ una sequenza lunga e articolata, intervallata da classiche situazioni in apparenza scollegate, in cui si tenta di dare umanità ai personaggi coinvolti: ci sono tocchi castelliani nella caratterizzazione di Travis e Martin, ma pare di scorgere una mano diversa in quelli secondari, come la vedova Wagner, dove la caratterizzazione scende al livello di "vorrei ma non posso".
Tra le citate sequenze “secondarie”, che non vedono Martin come protagonista, inattesa è quella narrata in prima persona da una voce non identificata: sebbene la “narrazione nella narrazione” sia uno dei punti di forza della qualità letteraria dei lavori di Castelli, questo caso risulta atipico perché la narrazione non è calata nel solito contesto, e non sembra nemmeno rivolta a qualcuno in particolare (invece lo è, ma poco importa). Per molti versi, sembra quasi una sequenza influenzata dal fumetto USA (o dalla narrazione cinematografica, per chi non è abituato al medium cartaceo), ibridata con lo stile mysteriano della rilettura della storia della civiltà attraverso un’ottica insolita. La singolarità della situazione è confermata proprio quando finalmente il proprietario della voce si rivela essere l’anonimo congegno mysterioso: la sua esistenza millenaria di Intelligenza Artificiale impone un collegamento con le civiltà dell’epoca di Atlantide e Mu (o delle precedenti stirpi), ma Castelli concede solo un fuggevole istante a questo aspetto della storia, scaricando sul lettore il compito di capire quali fossero gli scopi originali di questo congegno, perché avesse capacità telepatiche, se fosse senziente sin dall’inizio, e perché si sia evoluto in modo maligno: è un autogol, però, perché genera un buco narrativo rilevante riguardo ai fattori scatenanti degli eventi di questa vicenda che, come vedremo nel finale, risultano un po’ grotteschi (col progredire della serie, si scopre che questo è il marchio di fabbrica del co-sceneggiatore, che per dilatare le idee di Castelli alle 160 pagine canoniche non sceglie mai di approfondire, ma preferisce tergiversare con situazioni riempitive e senza valore).
Dopo aver lontanamente alluso ad altre tradizioni di proto-automi come i Golem, la storia prosegue quindi sui binari molto canonici dell’I.A. monoliticamente malvagia che persegue un piano ragionevolmente idiota.
Per certi versi, la connotazione autoreferenziale di questo congegno onnisciente ma incapace di concepire “gli altri” ci fa pensare alla finezza con cui lo sceneggiatore USA Kurt Busiek aveva trattato l’entità informatica “Construct” nei fumetti della DC Comics, in particolare in JLA: Syndicate Rules, dove si insiste molto su come la formazione di una coscienza dipenda dall’interazione con altri esseri simili a noi.
Purtroppo, il trattamento che viene riservato all’IA Scacchista è invece più simile a quello di un telefilm degli anni 1980, tipo “La donna bionica” o “Supercar” (e chi si ricorda a che episodi alludiamo può partecipare al quiz). E’ un peccato, perché l’idea di fondo è stata anche ripresa e gestita meglio da telefilm più recenti, tipo il nuovo BattleStar Galactica e il suo preludio di Caprica, dalle cui riflessioni sull’intelligenza artificiale si sarebbe potuto trarre ispirazione.
Nel tempestoso finale, la battaglia tra macchine edili fa un po’ Jurassic Park cyberpunk, un po’ Transformers e molto telefilm anni 1980 (di nuovo), ma si salva per la volontà abbastanza simpatica di “chiudere il cerchio”: l’interfaccia del programma che può risolvere la situazione è, infatti, basata su un antenato “atlantideo” del gioco degli scacchi, che solo l’intuito e la prodigiosa memoria di Martin possono risolvere. Tutti i “perché” relativi a questa simpatica trovata finale, però, restano senza una risposta, e non sembra esserci nessun motivo intuitivamente logico per cui l’IA abbia un’interfaccia basata su scacchi Atlantidei (e per caso, millenni dopo, sia divenuta parte di un automa scacchista): e così, questa falla narrativa trasforma la trovata inizale in una imbarazzante forzatura posticcia.
Altrettanto forzata risulta la situazione scatenante del “giallo” su cui Martin e il macchiettistico DoppioTì Travis indagano: se l’IA atlantidea desiderava un corpo tecnologicamente avanzato, perché ha voluto che il pensionato Wagner costruisse una replica dell’automa “Il Turco”? Cosa sperava di ottenere, facendosi nuovamente impiantare in quella sorta di pupo siciliano meccanico?
Definitivamente assente è, infine, l'idea di coinvolgere il gioco degli scacchi, narrarne la storia, trovarne una origine mysteriosa (come fu fatto per i Tarocchi e gli Zingari), indagare sui simboli archetipi dei pezzi. E' questo il vero problema della storia: in 160 pagine, le intuizioni di Castelli finiscono sprecate in un tergiversare continuo che oscilla tra l'azione più inutile e le trovate da fantascienza tecnologica dozzinale e pesantemente datata.
Come questa sceneggiatura, pensata per sembrare solida e lineare (ma non a una seconda analisi), vuole essere rassicurantemente classica, così fa l'arte di Rodolfo Torti, che in questa prova risulta al di sopra della media calante degli ultimi anni: maggior rigore grafico, maggior documentazione visiva, maggiore attenzione alle inquadratura (gli si possono perdonare alcune immagini spudoratamente riciclate, come quella della biblioteca, ripetute col copia&incolla, magari con la semplice aggiunta di Martin e Java). Non mancano però le anatomie opinabili e figure umane assai sciatte (ma non stavamo dicendo che era meglio del solito? Vabbe', almeno la vedova aveva un aspetto diverso dai suoi abituali personaggi).