Martin
Mystère n. 331, “Ritorno a Longitudine Zero”
Storia
di Andrea Cavaletto
Arte di
Giulio Camagni
Rarissimo esempio di promessa mantenuta,
questa nuova uscita ha l’indiscutibile attrattiva del seguito pubblicato senza
attendere decenni. Oltre al merito dei dialoghi brillanti, che propongono una
caratterizzazione intelligente e rispettosa dei personaggi della serie, l’albo
ha infatti il pregio di contribuire a fare chiarezza su certi elementi poco
chiari dell’aggrovigliata vicenda originale di Martin Mystère n. 317, “Longitudine Zero”, proponendo qualche spiegazione
più lineare e un seguito delle vicende lasciate in sospese.
Purtroppo, però, gli aspetti positivi
finiscono qui, perché la storia si conclude in un nulla di fatto, lasciando
ancora più domande senza risposta, quasi si trattasse di uno degli episodi
riempitivi di Dylan Dog. O forse perché gli autori si erano messi
d’accordo solo in modo approssimativo riguardo agli elementi cruciali della
trama. L’argomento principe della saga sembrava infatti essere quello della
Doppia Teoria Del Tutto, una Teoria Unificata capace di racchiudere non solo
tutti i fenomeni della fisica, ma anche quelli della magia: a conti fatti,
però, questi si rivela solo di un pretesto per dare un presupposto
pseudo-scientifico al solito argomento degli universi paralleli che entrano in
contatto tra di loro a causa di un esperimento umano (che poi va male, come nel
film The Mist, con tanto di mostroni
extradimensionali molto simili). La promessa della Doppia Teoria Unificata,
quindi, finisce col venire completamente sprecata, vanificando le (legittime)
aspettative del lettore Mysteriano che si aspettava una vicenda cosmologica
consona al tema. Lo squilibrio tra la “premessa” fatta in Martin Mystère n. 317 e l’esiguo utilizzo (in chiave
rettificatrice) che se ne fa in questo albo è assai vistoso: la base nazista,
di cui era stata tracciata una storia dettagliatissima, viene liquidata in due
pagine; il concetto di universi paralleli in collisione si traduce solamente in
“c’è un altro Martin Mystère” e l’idea della fusione scientifico-magica si
rivela del tutto irrilevante (e resta infatti inapplicata). A voler ben
guardare, tutti questi elementi sono equivalenti a “segnaposto” sostituibili a
piacere con altri analoghi, senza che la storia ne resti minimamente inficiata:
si potrebbe usare un clone di Martin invece della sua versione alternativa; si
potrebbe parlare di energia cosmica o di vento solare o di Ley Lines, invece
che di energia zero, e così via. Si potrebbe mettere Dylan e una fidanzata al
posto di Martin e Diana spogliarellista.
A essere inoltre onesti, la delusione per un
epilogo così generico non può lasciare stupiti. E’ da anni che la serie di MM
sta attuando un cambiamento di rotta per quanto riguarda i suoi vecchi
capisaldi di approfondimento, documentazione, complessità dell’intreccio e dei
concetti: siamo solo noi mysteriani della vecchia guardia a incaponirci nel non
voler accettare che il vecchiume caratteristico di MM è roba sorpassata,
che non vende e che non fa presa sul pubblico occasionale moderno, interessato
solo a vicende di facile fruizione.
L’albo ha comunque aspetti positivi, che non
possono passare inosservati, come la scelta di usare Diana in modo più attivo,
oltre che di toccare argomenti d’attualità sgradevoli ma incombenti (come la
privatizzazione del controllo dell’acqua dolce del pianeta). E c’è anche una
tensione sottile, ma continua, nel gestire il problema delle allucinazioni di
cui soffre Martin Mystère. Purtroppo, però, anche questi elementi collassano in
fretta sotto il peso delle esigenze commerciali. Diana passa da essere umano
adulto e maturo, a burattino fanservice
che si spoglia continuamente per il sollazzo del ventre del lettore,
costringendoci a chiederci dove siano finiti i “tanti lettori speciali” di MM,
diventati tutti adolescenti in ebollizione ormonale da attirare con scenette
allusivamente erotiche, ignari che in edicola esistono pubblicazioni più
esplicite e dirette in cui non serve nascondersi dietro 160 pagine di cortina
fumogena per vedere donnine ben più nude. Le divagazioni nei dialoghi diventano
vaneggiamenti tanto dispersivi quanto inutili, come le conversazioni sulla luce
e il buio, oppure l’insistenza su improbabili alieni (che nulla c’azzeccano, ma
a onore del vero lo sceneggiatore stesso lo ammette per bocca dei personaggi).
Il “dramma delle allucinazioni” di Martin finisce con l’essere liquidato come
causato dalla “vicinanza” al suo doppione, che alla fine Martin non incontra
mai, lasciandoci con l’insoddisfacente sensazione di una vicenda incompiuta e
irrisolta, chiusa in fretta e furia per non far emergere conseguenze narrative
logiche impossibili da gestire.
Ma così come non si capisce bene perché Martin
abbia allucinazioni che a volte sembrano scene veramente accadute nell’altro
universo e altre no, altrettanto irrisolta resta la questione di Java, che non
partecipa alla storia perché non appartiene alla biforcazione. Quale
biforcazione? E’ l’universo originale, questo, oppure no? Ci stiamo ancora
biforcando? E in entrambi i casi, Java non è presente in entrambi gli universi?
Altre domande senza risposta riguardano anche
il malvagio di turno, cioè Peck/Lighthammer, della cui natura viene detto poco
o nulla. Certo, ci viene promesso un seguito, ma dopo due volumi da 160 pagine
che non riescono a dare nessuna sensazione di risultato concreto o direzione
logica, la nostra reazione è un po’ scettica. In particolare, lo è perché
ancora non s’è capito (né è stato lontanamente tirato in ballo) il motivo che
ha spinto il Peck dell’Altro Universo a fare ciò che ha fatto con l’Altro
Martin. In che modo credeva di ottenere un qualche risultato a proprio
vantaggio, scaraventandolo nella nostra realtà?
L’Altro Martin è a sua volta un personaggio
deludente, ingabbiato com’è nella tipica trama Dylandoghiana piuttosto banale,
con canovaccio visto in un numero fin troppo elevato di fumetti e/o animazioni:
il povero prigioniero senza memoria, sottoposto a orripilanti esperimenti, che
finisce col diventare un essere divino dai poteri devastanti e incontrollabili,
finché non si ferma a riflettere su ciò che è diventato, fa una strage finale e
poi se ne va.
E anche qui, ci si chiede perché solo i
santoni e i sacerdoti possano essere utilizzati per stimolare questo
poveraccio. Il collegamento, vaghissimo, è quello con la questione
mistico-religiosa-cabalistica della Reshimo, ma anche in questo caso ci
troviamo davanti a una gestione deludentemente scarna e vaga dell’argomento,
molto Dylandoghiana nella sua mancanza di qualunque tentativo di spiegazione:
per qualche istante, ci viene fatta balenare la similitudine tra l’energia zero
(energia del “vuoto” a livello quantistico) e la reshimo (presenza del divino
anche nel vuoto dentro la luce eterna), ma l’intuizione muore esattamente dove
inizia, senza che nessuno dei personaggi riesca a trarne conclusioni di alcun
genere e ancor meno a costruirci un castello di teorie che svelano la struttura
segreta dell’universo o della storia, come era tipico del Martin vecchia
maniera. Certo, c’è qualche immagine suggestiva ma è sostanzialmente
dimenticabile in termini di significato. Anche questo aspetto della vicenda,
che ha un legame davvero esile con l’idea degli universi paralleli (e poteva
derivare da qualunque altro concetto di fantascienza), si rivela sin troppo
simile a una “scorciatoia narrativa” per far sparire di scena l’Altro Martin,
senza lasciare nessun tipo di traccia nella saga (o nelle menti dei lettori).
Deludente è anche che il “vero” Martin Mystère
non contribuisca quasi per nulla ad affrontare questo mistero, dato che si
limita a riassumere le risposte fornitegli (tutte, anche le più banali)
dall’assistente di Lighthammer e dal rabbino Chanan: due personaggi
interessanti e con un loro potenziale, ma che in definitiva mettono in ombra il
protagonista, dimostrando di sapere e aver capito molto più di lui.
In questo senso, anche le citazioni a casaccio
della continuità della serie di MM si
dimostrano deleterie. In una vicenda ambientata in Antartide, che senso ha
ripescare una storia ambientata nell’Artico (agli antipodi) e un’altra che per
puro caso ha avuto un epilogo nello stesso luogo (per modo di dire,
geograficamente parlando, e per di più essa riguardava sassi che cadevano dal
cielo a comando), quando invece esiste Martin
Mystère Special n. 5, “La città sotto i ghiacci”, in cui Martin ha scoperto
una verità piuttosto potente e indimenticabile, che fa proprio da premessa
logica a tutta la vicenda di Longitudine
Zero?
Rincariamo la dose: va bene dire che non c’era
più spazio per citarla, avendo dato spazio a rievocazioni di storie
irrilevanti, ma c’era proprio l’esigenza di far fare a Martin la figura del
fesso spaesato che casca dalle nuvole, quando il signor-nessuno-assistente-di-Lighthammer
gli spiega che la base antartidea nazista è in realtà molto più antica e quindi
costruita da una civiltà dimenticata? Se si fosse trattato del vero Martin
Mystère, quello che seguivamo noi vecchi mysteriani obsoleti, sarebbe stato lui
il primo a fornire spiegazioni su Atlantide, surclassando chiunque altro, già a
pagina 10. Invece ora casca dal pero come se Atlantide per lui fosse una favoletta che passa per vera solo nelle storie di Topolino di Massimo DeVita.
Nota a margine riguardo alla continuità: a
pagina 102, l’Altro Martin percepisce persone del cast regolare della serie, da
Travis Travis a Sergej Orloff, ma tra le immagini di queste persone fa capolino
un Satiro Marziano, di cui non si sente parlare dai tempi della vicenda di Za-Teh-Nay
(se trascuriamo “La musica delle sfere”).
Sarà un caso, visto che il seguito di quell’altra vicenda dovrebbe essere in
arrivo?
In conclusione, possiamo riassumere questa
interminabile tirata affermando che “Ritorno
a Longitudine Zero” rappresenta un’occasione mancata e una bella idea
sprecata, ma solo per i rari lettori anziani che sono rimasti ancorati al
vecchio modo di intendere Martin Mystère,
mentre è un albo perfetto per rivolgersi al pubblico cui mirano le strategie
commerciali attuali (anche se non capiamo perché quel pubblico non possa
preferire i più riusciti Dylan Dog e
simili, che nascono già con questa impostazione vincente).
In compenso, i disegni di Giulio Camagni sono
eccellenti, con la loro miscela di realismo dettagliato, atmosfera onirica e
suggestioni antartidee di ghiaccio e nebbia davvero concrete e convincenti.