mercoledì 15 ottobre 2014

[Recensione] "Coloro che vivono di morte", Storie di Altrove n. 17

 STORIE DI ALTROVE n. 17
Settembre 2014
“Coloro che vivono di morte”
Storia di Carlo Recagno
Arte di Antonio Sforza, con la collaborazione di Giovanni Romanini

 DOTTOR CHI? VOYAGER DOVE? OSCAR COSA?

 “Coloro che vivono di morte” non vivono davvero di morte, perché è solo una diceria messa in giro da qualcuno. La trama da loro ordita contro il governo degli Stati Uniti non è una trama ma un rituale di espiazione, e non è rivolta contro il governo degli Stati Uniti, né contro nessun altro obiettivo significativo: si tratta “solo” di vendicare il peccato involontario del presidente James Garfield, che durante la guerra fece sterminare quell’antico popolo sotterraneo dall’aspetto spaventoso. Oscar Wilde, che non è un agente di Altrove ma solo un simpatizzante, non risolve davvero la faccenda, ma si limita a un assist che consente agli agenti di Altrove di limitare i danni tramite constatazione amichevole (come dice Riccardo Nicole’ sulla mailing list del BVZM).
Dopo esserci rinfrescati la memoria riguardo allo scopo della pubblicità (vendere) e a come essa sia congegnata per ingannare senza mentire apertamente, possiamo rileggere questo albo accantonando le false aspettative che la suddetta pubblicità aveva subdolamente ingenerato in noi. E ci accorgiamo così che “Coloro che vivono di morte” è equiparabile a certi episodi “umanistici” di serie tv di fantascienza che rifiutano quel modo di intendere l’avventura come sensazionalismo spaccone, pseudo-militarista e violento. Al giorno d’oggi, tutti menzionano subito Doctor Who, come pietra di paragone, ma anni fa si sarebbero invece nominati Star Trek: Voyager o Star Trek: Deep Space Nine, e ancora prima invece sarebbe stato citato Spazio: 1999 (la prima stagione, intendiamo).
Sebbene in modo meccanico e privo di guizzi, anche questo albo offre tutti gli elementi obbligatori per Storie di Altrove, dalla “vera” ispirazione per le opere future del personaggio storico di turno all’evento storico che nasconde un retroscena mysterioso, passando per le (ridotte) donne nude e le comparsate citazioniste nella base di Altrove.

Carlo Recagno tocca il tema dell’omosessualità di Oscar Wilde con sobrietà e accortezza, riuscendo a bilanciare le contrapposizioni della vita e delle scelte obbligate di Wilde, che per tutto l’albo non nasconde nulla ma nello stesso tempo non vuole neanche gridare ai quattro venti ciò che lo renderebbe vittima di un linciaggio. Non che ciò lo ponga al riparo dall’ira vendicativa della folla, la cui ignoranza superstiziosa individua (come sempre) le cause del proprio disagio nella minoranza diversa, sacrificabile in quanto incapace di difendersi. Insieme alla conversazione finale tra Olimpia e Wilde, e alla caratterizzazione del celebre scrittore, si tratta probabilmente del momento meglio riuscito dell’intero albo. Per inciso, il timore xenofobo verso una minoranza di diversi è curiosamente un tema cruciale di “L’ombra di Za-Te-Nay” (Martin Mystère n. 335), albo che esce pochissimo tempo dopo il presente SdA.

Ma se la gestione di un personaggio così difficile si conclude positivamente, altrettanto non si può dire dell’altro elemento cruciale della storia, che Recagno non riesce a realizzare in modo convincente e coerente, producendo una sequenza finale che indebolisce ulteriormente una trama già esile e traballante.
I “cattivi” di turno (gli esseri chiamati Ja-Gen-Ho) si atteggiano a perfetta incarnazione dello stereotipo dell’entità maligna, con risate sataniche e sinistre minacce e vanterie malvagie di ogni genere, ma nel finale si rivelano essere invece anime in pena che perseguono (spietatamente) il loro obiettivo ma senza voler fare male a nessuno se non è necessario; rileggendo l’albo alla luce di questa rivelazione, il modo in cui gli Ja-Gen-Ho sono sceneggiati risulta ancora più illogico, non solo per i loro dialoghi, ma anche per le azioni. 
Due esempi su tutti: per tenere alla larga Olimpia dalla cittadina dove si nascondono, le forniscono le coordinate della stessa; per spiegare a Oscar Wilde che hanno bisogno di lui, gli annunciano che è caduto in trappola.
Pretestuoso risulta anche lo scopo degli Ja-Gen-Ho, e cioè svolgere un rituale che scade (guarda caso) proprio quando Oscar Wilde fa il suo tour negli USA, e che richiede di distruggere fisicamente una cittadina che non ha nulla a che fare con l’evento che essi vogliono espiare, e che ha la sola disgrazia di essere vicina a un bosco dove soldati statunitensi (provenienti da tutta la nazione, quindi) hanno sterminato gli stessi Ja-Gen-Ho.
Implausibile è anche che gli Ja-Gen-Ho conoscano questo rituale così preciso per dare requie alle loro anime in pena: se ne intendono perché hanno già subìto altri genocidi in precedenza?, ci si chiede.
Gli Ja-Gen-Ho parlano di una “vergogna” da cancellare, ma, almeno nella nostra ottica umana, risulta difficile capire di quale vergogna si tratti. Questo popolo è stato sterminato: non dovrebbe provare sensi di colpa. 
Indigesta è la velocità con cui l’intera faccenda viene attribuita alle azioni di anime in pena che non riescono ad andare oltre: solitamente, un’affermazione così paranormale e indimostrabile viene quanto meno presa dagli sceneggiatori con le molle del più sarcastico scetticismo; questa volta invece è un assunto trattato come se fosse una situazione quotidiana.
Per finire, il potere che gli Ja-Gen-Ho sfoggiano da morti è impressionante e apparentemente senza limiti: difficile credere che appartenga alla stessa specie che i soldati di Garfield hanno sterminato a colpi di fucile. 

Sicuramente è possibile spiegare e circostanziare tutte queste situazioni, che allo stato attuale appaiono come facili scorciatoie narrative, ma la giustificazione della mancanza di spazio non può essere addotta in tutti i casi citati. E’ infatti vero che l’albo esce con 20 pagine in meno (a prezzo invariato), ma è anche vero che esso si apre sprecando spazio in abbondanza, con una lunga sequenza, quella ambientata in Louisiana, che risulta poi completamente riempitiva (salvo minimi agganci puramente formali con la vicenda del non-complotto).  


MITOLOGIA NATIVO-AMERICANA

Come spiegato nella rubrica di coda dello SdA, “Coloro che vivono di morte” fanno parte della variegata mitologia nativo-americana, i cui numerosi elementi di base sono declinati in infinite varianti a seconda della tribù che li ha fatti propri e rielaborati.
La particolare struttura narrativa del popolo indigeno antecedente all’umanità, che emerge dalle viscere della Terra per giudicare e sterminare un sonnolento borgo moderno di umani “bianchi”, è stata usata anche da John Byrne in un episodio decisamente unico del suo memorabile ciclo su Fantastic Four. Stiamo parlando di “Wendy’s Friends”, cioè il n. 239 del volume 1 di Fantastic Four, un albo del 1982 che mostra sorprendenti affinità con questo SdA del 2014.

Nelle 22 pagine di ”Wendy’s Friends”, Byrne invia i F4 nello sperduto e isolato borgo di Benson, in Arizona, dove entità arcane simili a versioni in miniatura degli N’Garai stanno causando eventi che terrorizzano a morte la popolazione. Lo stile della vicenda richiama da vicino la narrazione del telefilm culto Ai confini della realtà. La narrazione è paradossalmente ricca di dialoghi, ma asciutta e mirata a causa del formato del comic book statunitense; l’arte è quella curatissima del periodo migliore di Byrne; insieme, questi due aspetti conferiscono una potente efficacia visiva e una notevole coerenza narrativa all’intera vicenda. 
Come nelle leggende nativo-americane, in cui il “piccolo popolo” preferisce rivelarsi a bambini e anziani, anche i non-N’Garai di Byrne stabiliscono un rapporto privilegiato con una piccola bambina mezzo-sangue (e quindi rappresentante degli indiani d'America, un popolo non corrotto come i “bianchi” europei).
 Il loro scopo, apparentemente in reazione agli abusi genitoriali subìti dalla piccola, si rivela essere il “giudizio ciclico” degli abitanti di Benson, declinato in modalità arcane e “cosmiche”: infatti, come viene ipotizzato dalla celebre e mysteriana archeologa Ruth Efford, in seguito a scavi archeologici letteralmente degni di questo nome, la regione di Benson era già stata giudicata e drammaticamente “purgata” ben diecimila anni fa da questi non-N'Garai (che sterminarono i nativi di quell’epoca, chiunque e qualunque cosa essi fossero); ora l’evento si ripete, ma il giudizio, che è non-ostile, ha un esito diverso, offrendo infatti la possibilità di redimersi agli abitanti di Benson che sopravvivono alla prova.
La vicenda si conclude su questa nota, accompagnata da un esodo quasi completo della popolazione, salvo pochi “eroici” cittadini che non vogliono fuggire. Comunque sia, tutti loro sono stati “toccati” dal giudizio, e ciò offre la speranza di un cambiamento in meglio delle loro vite.

Se i F4 incarnano la squadra steampunk di Altrove, la studiosa europea Ruth Benson gioca invece il ruolo del letterato Oscar Wilde, mentre gli n’Garai sono ovviamente una versione più arcana degli Ja-Gen-Ho, i cui scopi e modi risultano davvero imperscrutabili e inconoscibili in quanto alieni al nostro modo di pensare.




ALTRE CITAZIONI

 Recagno ha già illustrato le citazioni “effettive” nell’intervista sul sito Bonelli, per cui noi ci limitiamo a un po’ di annotazioni marginali.

Episodio di Fantastic Four a parte, Oscar Wilde ironizza sulla scarsa originalità dell’idea della “società bene” che in realtà è un covo di mostri: quasi un richiamo a Society: The Horror di Brian Yuzna.

Olimpia parafrasa invece Bruce Banner (di The Incredible Hulk), col suo famoso “non fatemi arrabbiare: non vi piacerei quando sono arrabbiato”.

La squadra steampunk di Altrove, forse l’unico elemento di novità di questo albo, utilizza un rilevatore di presenze ectoplasmiche che richiama l’improbabile e artigianale detector usato dai fratelli Winchester del telefilm Supernatural.

La mostruosità indiana delle paludi che intrappola Olimpia (e chi è che riesce a “stordire” Olimpia, colpendola banalmente sulla nuca?) è presentata da Recagno come un elemento Lovecraftiano, ma la sensazione del lettore ignorante è che potrebbe essere qualcosa di più, come un’astuta citazione di una qualche oscura vicenda horror Bonelliana tratta da pubblicazioni western dei vecchi tempi, oppure anche un accenno a una qualche idea tenuta in serbo da Recagno: purtroppo la mancanza di connessioni significative tra questa lunga sequenza e la trama portante impedisce di azzardare altre ipotesi sulla sua presenza nell’albo.

L’emersione di arcani piloni dal terreno (in questa variante ricoperti di pittogrammi tipicamente nativo-americani) è un luogo comune veramente abusato della narrativa fantastica, ed è difficile trovare una specifica fonte di ispirazione. Sorprende un po’ che si parli del loro scopo di conduttori di energie geomantiche: si tratta di un elemento fondante della mytologia mysteriana, solitamente condannato al limbo dal restyling della serie regolare.

A pagina 76 compaiono: uno scienziato celebre il cui nome non ci sovviene; il protagonista del Garage Ermetico di Moebius (vignetta 2), Van Helsing (versione Castelli), Lon Chaney e un altro che a sua volta non sappiamo identificare (Lupin?). 

Nelle scene ad Altrove, non abbiamo individuato il Murchadna indicato da Recagno nell’intervista, ma sicuramente sono visibili il ritratto del Comandante Mark e la Time Machine del primo film basato sul romanzo di Orwell, oltre che un enigmatico Cubo che potrebbe giungere da Hellraiser.

Purtroppo Recagno si è fatto sfuggire l’occasione di dare un senso mysteriano alla faccenda del “limite dei venti anni” che vincola l’immaginario rituale degli Ja-Gen-Ho: non sarebbe stato nulla di plausibile al di fuori delle pagine di MM, ma sarebbe valsa la pena di associare questo intervallo di tempo ai venti anni de “La maledizione di Annabel Lee” e al ciclo ventennale che segna il ritorno dei Kundingas sulla Terra (come notato nella 'Mailing List' del BVZM dall’utente Cristian Di Biase).

Sulla mailing list del BVZM, infine, Recagno ha anche raccontato che il titolo di lavorazione di questa storia, apprezzato da Castelli, era “Wilde, Wilde West”.

L’ARTE

 L’arte di Antonio Sforza si dimostra molto gradevole e fluida, quando e dove l’autore riesce a completare matite e chine, creando atmosfere tenebrosamente suggestive e raffigurando intriganti e dettagliate fisionomie di personaggi nuovi e vecchi.
La collaborazione di Romanini citata nei credits consiste in chine complete di una ventina di pagine più chine degli sfondi di molte altre pagine, con un netto contrasto tra queste e i primi piani curati da Sforza nelle stesse pagine (da notare la goffaggine di vignetta 3 di pagina 59). Certe sequenze, però, sembrano anche disegnate, oltre che inchiostrate, da Romanini, nonostante quanto detto da Recagno nell’intervista già citata.
E’ possibile che Romanini abbia quindi contribuito a rifinire le bozze a matita di Sforza, completando quindi le matite e imprimendovi il suo marchio: il risultato è meno stridente di quando Romanini imita lo stile di Alessandrini sulla serie regolare, ma non è tra i più felici.
O forse l’effetto è meno marcato perché Sforza è un disegnatore nuovo per l’universo Mysteriano e le sue caratteristiche grafiche non sono ancora divenute abbastanza familiari all’occhio da saper riconoscere all’istante un suo emulo.
Restano comunque le differenze tecniche, che saltano all’occhio nelle tipiche limitazioni di Romanini, e soprattutto nella sua difficoltà a gestire in maniera fluida la grafica di ciò che esula dalla quotidianità, che si tratti illustrare in modo credibile le tecnologie avveniristiche di Altrove (o di Marte) o una creatura non umana (dagli Ja-Gen-Ho ai Satiri). Il suo apporto al volume non è indifferente, e visto il numero ridotto di pagine e il prezzo elevato dell’albo, influisce sulla qualità complessiva dell’acquisto in modo significativo.


 IN CONCLUSIONE

 Sebbene i singoli elementi di questo albo siano tutti interessanti e ricchi di potenziale, dall’idea di base all’arte, ognuno di essi è viziato da una qualche lacuna di fondo, che insieme alle altre concorre a dare un’idea generale di incompletezza da “vorrei-ma-non-posso”, impedendo quindi il raggiungimento di una sufficienza dell’esecuzione. E, ci spiace essere venali, ma l’aver pagato un prezzo pieno per un lavoro con queste lacune contribuisce non poco a questo giudizio negativo.

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