venerdì 19 ottobre 2012

[Recensione] Martin Mystère n. 323, “I trentasei giusti”

Martin Mystère n. 323, "I trentasei giusti"
Ottobre 2012

Storia di Carlo Recagno. Arte di Rodolfo Torti.

Nel ciclo di albi dedicato al trentennale del personaggio compare un altro elemento ricorrente della serie: Agarthi, la lamasseria/città ultramondana “gestita” da Kut Humi, il quale per l’occasione si riunisce con i suoi confratelli detti “Superiori sconosciuti”, i reggenti del mondo. Poco viene detto al loro riguardo, e la loro presenza si rivela essere una comparsata, un escamotage per avviare la narrazione (le anteprime parlavano di un “segreto di Agarthi” che però resta ancora abbastanza oscuro e vago anche dopo la lettura dell’albo).
La sequenza introduttiva dell’albo passa dalla drammatica morte di un “Giusto” ai toni quasi macchiettistici dell’irritazione di Kut Humi verso il discepolo, e si mantiene per tutto il tempo su un tono abbastanza superficiale, come nella scena della (non) presentazione dei Superiori. Essa è tanto sbrigativa e fuggente quanto lo è l’evento della grande campana, che fa presa sui sacerdoti solo per qualche secondo. L’introduzione dell’Emissario (Emissaria?) prescelta per la missione, per quanto più protratta, non si dimostra a sua volta memorabile, probabilmente perché, nella sua vaghezza, manca di impatto sia grafico che narrativo.
Subentrano poi alcune conversazioni, tra le quali rientrano anche alcuni tormentoni di Martin Mystère, che risultano tanto generiche e dozzinali da poter essere utilizzabili come pagine riempitive in un’altra storia, senza che la trama ne risenta. Alla rilettura dell’albo, la loro mancanza di utilità all’economia della storia diventa ancora più marcata, tanto da stimolare l’impulso di saltarle a piè pari.
Specularmente ai dialoghi, vi è un ampio spazio dedicato a sequenze convenzionali di scene d’azione, con i classici inseguimenti, pestaggi e sparatorie tra personaggi assortiti, in strade e case anonime di New York, corredati di un utilizzo meccanico dei poteri paranormali “d’obbligo”.

La storia personale dell’Emissario di Agarthi, definita la più potente di tutti loro, non viene esplorata e il lettore resta con numerose domande senza risposta sulla storia, le capacità e le motivazioni di questo personaggio occidentale, che risulta incongruo nel contesto asiatico dei monaci Tibetani e nell’economia della serie, nella quale non era mai comparso prima nonostante le caratteristiche di cui gode. Al momento della sua morte, non si è ancora capito perché ella abbia voluto con insistenza che Martin le spiegasse cosa sono i Tzadik, di cui lei sa già tutto.. E dopo la sua morte, non si capisce perché la campana suoni: è la stessa che, secondo i Superiori, suona solo se si apre un vuoto nei 36. Ma quindi l’Emissario è uno dei 36?
Il Grande Vecchio Malvagio ci parla poi dei rivali della sua setta millenaria, i “seguaci del bene” che hanno fatto sparire le tracce del rituale per creare gli Tzadik (o meglio, i Predisposti). Questi seguaci sembrano essere quelli di Agarthi, che a loro volta infatti non sanno come individuare gli Tzadik: resta senza spiegazione perché abbiano eliminato queste informazioni, privandosi così di uno strumento importante per proteggere gli equilibri del mondo.
Essendo le istruzioni per creare lo Tzadik andate perse, si presume che ora gli Tzadik non possano essere più creati, ma debbano generarsi spontaneamente, a meno che non ci sia in gioco una terza forza che ancora conosce queste istruzioni e che però è rimasta nascosta per l’intera vicenda, nonostante la crisi.

La conclusione della storia viene suggerita abbastanza presto, e cioè quando il Predisposto della fazione malvagia assiste alla tortura dello scagnozzo incompetente. La stessa conclusione viene ribadita quando il Predisposto piange per la morte della propria amante: a quel punto, è chiaro che la trama seguirà il classico schema del figlio che si ribella al padre. Poco più avanti, l’ipotesi sull’esito della storia viene confermata dalla precisazione che i Giusti possono anche essere persone malvagie.
Sembra che questa sia l’unica variante degna di rilievo che è stata introdotta nel tema della leggenda dei trentasei giusti, che per il resto viene fedelmente riportata nei suoi dettagli basilari, senza interpretazioni originali o accostamenti inediti. Non ci sono riferimenti alle varianti oscure della leggenda o elaborazioni della numerologia associata, né approfondimenti alternativi della “storia segreta” della leggenda stessa. A fine albo, essa risulta quindi altrettanto oscura e inesplorata, con l’eccezione di un esiguo dettaglio pseudo-storico collocato 2.000 anni fa, ma anch’esso abbandonato nelle nebbie della vaghezza: di quel rito svoltosi due millenni orsono, infatti, non si menzionano né il luogo, né l’identità del prescelto, né il suo contributo alla storia del mondo, né chi fossero i contendenti che cercarono di sventare o che protessero l’evento in questione.
Si resta sul vago anche per il “sigillo” (cos’è? Perché? Che storia ha?) e il “portatore del sigillo” (chi è? Come mai sa? Che storia ha?), che sembrano non fare nemmeno parte della mitologia del rituale o dei Giusti.
Vaghe sono anche le scelte e nelle motivazioni del Predisposto, di cui non viene descritta la storia personale, con l’eccezione della perdita di un’amante e della madre, che però è morta durante il parto e non dovrebbe quindi rivestire una grande importanza nella vita del ragazzo, a meno che il condizionamento totale a cui la sua vita e quella dei suoi antenati erano sottoposti (secondo le parole del Grande Vecchio Malvagio in persona) non sia stato poi così pervasivo e abbia invece permesso inavvedutamente l’ingresso di valori diversi da quelli programmati (senza che nessuno se ne accorgesse, nonostante le immagini indichino il contrario).
A proposito della setta millenaria, alla gag del telefono cellulare si aggiunge quella dei corifei che ne fanno parte e che sono davvero simpatici nel loro ripetere ogni parola che sentono, da “il rito” a “Mystère”. Curiosamente, lo chiamano solamente per cognome, quando si rivela durante il rito, come se Martin Mystère fosse il loro più acerrimo nemico: invece, durante la storia, il suo coinvolgimento è stato marginale e di basso profilo, quasi inosservato.

Martin Mystère reagisce al tono elusivo del contesto generale con un comportamento equivalente, facendosi trascinare dagli eventi salvo qualche puntualizzazione di natura formale per salvare le apparenze.
La sequenza dell’infiltrazione nel palazzo della Setta Millenaria, che lo avrebbe visto protagonista “in solitaria” (ma non troppo), come sarebbe legittimo per il protagonista della serie, diventa uno sbrigativo flashback di poche vignette con immagini generiche, le cui didascalie implicano che certi eventi abbiano avuto luogo, lasciandoli non visti e non detti; ciò sbilancia la struttura dell’albo, che in precedenza ha dedicato ampio spazio a comprimari, comparse e personaggi riempitivi, mentre ora che è il turno del protagonista, la narrazione si contrae e lesina spazio e dettagli.
Il paragone con il romanzo fantasy proposto da Martin solleva dubbi: se la vicenda appartenesse a quel filone, allora sarebbe anche circostanziata nel definire e identificare i personaggi, i luoghi, il significato degli eventi, la loro collocazione pseudostorica e i dettagli dell’impalcatura narrativa ideata per l’epopea.
Nel finale, come a compensare la sua scarsa rilevanza nella risoluzione degli eventi, Martin Mystère riceve un premio di consolazione che, però, è appunto tale e risulta quindi artificioso, soprattutto nella sua repentina spiegazione, che sembra quasi un ripensamento introdotto all’ultimo minuto e spinge il lettore a chiedersi perché mai le cose funzionino così, sebbene fino a quel momento di tutto ciò non vi sia stata menzione.
La brusca conversione del Predisposto al bene, con tutte le conseguenze logiche che essa implica, è analizzata proprio da Martin Mystère, quasi per favorire la sospensione dell’incredulità di cui la vicenda ha un forte bisogno, ma anche così si resta con la sensazione di insoddisfazione di una storia con un buon potenziale che però non è stato sfruttato a dovere, se non nella suggestiva copertina, che risulta più avvincente di ciò che deve annunciare e promuovere.

L’arte è sempre uguale a se stessa, tanto che l’Emissario di Agarthi, con quella sua improbabile pettinatura, una cascata di capelli dritti che finiscono in riccioli, potrebbe benissimo essere la Wendy di “Ritorno all’isola che non c’è”, dopo una seduta dal parrucchiere per una tintura. Qualche sforzo in più viene dedicato al Predisposto, ai personaggi minori e alle ambientazioni (peraltro poco rilevanti ai fini pratici della vicenda).

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